Estratto dal libro

Com’è nato il progetto?

Durante un viaggio in auto nell’estate 2017, guardando fuori dal finestrino, rimasi incantato dai palazzi lungo la strada che si susseguivano come fotogrammi di un film. Studente di architettura, ho immaginato di fermarne alcuni in una serie di tavole fotografiche. Aveva così preso corpo il progetto PalaceScape.


Quale approccio ai soggetti è sotteso a questo progetto?

Il mio approccio verso l’architettura è, in generale, tale quale lo definisce Toni Thorimbert: un approccio quasi fisico.
Prima di fare una foto cerco di vivere il più possibile all’interno dell’inquadratura per catturarne l’atmosfera che avvolge il soggetto. Solo successivamente ritorno con la macchina fotografica, e cerco di documentare il soggetto al meglio. Normalmente la procedura richiede due intere giornate, inclusi sviluppo e fissaggio in camera oscura.


A quali domande rispondono queste fotografie?

Non considero le immagini fotografiche veicoli di risposte. Già ci sono fisici, matematici, storici che ne trovano di ottime. Ritengo invece che dall’arte in genere, così come dalla fotografia, ci si possa aspettare che faccia emergere domande, che solleciti una sempre più ampia apertura mentale e suggerisca inedite chiavi di lettura della città ai fruitori di queste immagini.


Perché fotografare anche palazzi di dubbio pregio?


La fotografia – come direbbe Mustafa Sabbagh – non deve necessariamente rassicurare, deve anzi mettere a disagio e creare dubbi, far pensare.


Che cos’è il banco ottico?

Si tratta di un tipo di macchina fotografica ideato nell’800 che originariamente utilizzava lastre (oggi pellicole) di vari formati. Essendo molto pesante, deve essere posizionata su un treppiede.
Considerando che il mezzo è funzionale a ciò che si vuole realizzare, il progetto PalaceScape mi è parso un’ottima occasione per sperimentare questa inusuale tecnologia.
Il suo uso comporta un processo per la creazione di ciascuna singola fotografia molto complesso e lungo, e implica un approccio al soggetto ben diverso da quello che ti consente una normalissima macchina fotografica.


Quali le fonti di ispirazione?

Maestro indiscusso della fotografia di architettura è, a mio parere, Gabriele Basilico: la sua estetica in apparenza semplice lascia trasparire una fotografia socialmente molto impegnata. Fra i suoi testi, quelli che mi hanno notevolmente supportato per questo progetto sono Architetture, città, visioni (a cura di Andrea Lissoni) e Abitare la metropoli.


Jean Baudrillard: «Silenzio della foto. Una delle sue qualità più preziose, a differenza del cinema e della televisione, a cui bisogna sempre imporre silenzio senza riuscirci. Silenzio dell’immagine, che succede (o dovrebbe succedere!) a ogni commento. Ma silenzio anche all’oggetto, che strappa al contesto ingombrante e assordante del mondo reale. Quali che siano il rumore e la violenza che la circondano, la foto restituisce l’oggetto all’immobilità e al silenzio. In piena confusione urbana, essa ricrea l’equivalenza del deserto, un isolamento fenomenale. La foto è il solo modo di percorrere la città in silenzio, di attraversare il mondo in silenzio».


Luigi Ghirri, che scoprii grazie al suo libro Kodachrome. Anche lui come Basilico realizza foto con un’estetica apparentemente semplice, pulita, a volte oserei dire imbarazzante. Come si è potuto capire apprezzo molto le foto dirette semplici e ben composte, senza giri di parole (sempre che questa espressione si possa riferire a una foto). Ghirri ha collaborato tra l’altro con l’architetto Aldo Rossi, anch’egli dalla grafica semplice e pulita.


Il volume fotografico Seduction of photography, di Toni Thorimbert, mi ha fortemente ispirato per quanto concerne la creazione della grafica e della presentazione di questo mio libro.



Mustafa Sabbagh, fotografo italiano originario della Giordania, come già accennato mi ha coinvolto con i suoi discorsi sull’arte e sul concetto del colore nero.